domenica 16 giugno 2013

For poetry'sake. The landays

   
    I call. You're stone.
    One day you'll look and find I'm gone.

    You sold me to an old man, father.
    May God destroy your home, I was your daughter.

Making love to an old man
is like fucking a shriveled cornstalk blackened by mold.

     Your eyes aren't eyes, They're bees.
     I can find no cure for their sting.

        Thanks to  Eliza Griswold who risked her life for poetry's sake. She went to Afghanistan,     dressed in burqa, and sat and listened to these poems recited and sung by Afghan women.

      Nella cultura afghana la poesia è venerata, in particolare, le forme letterarie che derivano dal Persiano o dall’Arabo. Ma il poema qui sopra è un distico popolare – un landay – un orale e spesso anonimo piccolo verso tratto da una canzone creata da e per le persone analfabete: le più di venti milioni di donne Pashtun che valicano incessantemente il confine tra Afghanistan e Pakistan. Tradizionalmente, i landays sono cantati ad alta voce, spesso accompagnati dal suono di un tamburo, che, insieme ad altri tipi di musica, fu bandito dai Talebani dal 1996 al 2001 e che, in alcuni luoghi, lo è ancora.
      Un landay ha soltanto alcune caratteristiche formali. Ciascuno di essi ha ventidue sillabe: nove nel primo verso, tredici nel secondo. Esso termina con il suono “ma” o “na”. Alcune volte il componimento è in rima ma il più delle volte non lo è. In Pashto, esso è cadenzato internamente di parola in parola in una sorta di ninnananna  a due versi che cela la crudezza del contenuto, che si distingue non soltanto per la sua bellezza, oscenità e arguzia, ma anche per la particolare capacità di articolare verità comuni circa guerra, separazioni, patria, dolore o amore. All’interno di questi cinque argomenti, i distici esprimono una furia collettiva, un lamento, una leggerezza faceta, un desiderio per la fine della separazione, una chiamata alle armi, che frustrano qualsiasi facile immagine di donna pashtun come nient’altro che un muto fantasma sepolto in un burqa blu.

I landays ebbero la loro origine tra nomadi e contadini. Essi erano cantati attorno ad un fuoco, dopo un giorno tra i campi oppure ad un matrimonio. Più di tre decenni  di guerra hanno indebolito una cultura e sparpagliato milioni di persone che non possono far ritorno ai loro villaggi. Il conflitto ha anche contribuito alla globalizzazione. Ora le persone condividono i landays virtualmente via Internet, Facebook, messaggi di testo e radio. Non  sono soltanto gli argomenti a renderli rischiosi. Essi sono, per la maggior parte, cantati e cantare è strettamente collegato alla licenziosità nella coscienza afghana. Le donne che cantano sono vedute come prostitute. Le donne rimediano a questo cantando in segreto, soltanto al cospetto dei parenti più stretti o di una donna straniera che non sembri pericolosa. Di solito in un villaggio o in una famiglia c’è sempre una donna che sia più brava delle altre nel cantare i landays ma gli uomini non hanno alcuna idea di chi essa sia.

Al giorno d’oggi, per le donne afghane, i programmi di poesia in radio sono una delle forme d’accesso consentite al mondo esterno. Questo fu il caso di Rahila Muska, che apprese dell’esistenza di un gruppo letterario femminile chiamato Mirman Baheer dalla radio. Il gruppo si riunisce a Kabul  ogni sabato pomeriggio e conduce, inoltre, un programma telefonico per le ragazze delle province, come Muska, che chiamano per parlare con le altre poetesse o per declamare al telefono loro componimenti. Muska, che significa sorridi in Pashto, chiamava così frequentemente ed era così talentuosa che divenne la beniamina del gruppo.
Un giorno, nella primavera del 2010, Muska telefonò alle sue amiche poetesse da un letto d’ospedale nella città di Kandahar per dir loro che si era data alle fiamme per protesta. I suoi fratelli l’avevano selvaggiamente picchiata dopo aver scoperto i suoi componimenti poetici. La poesia, specialmente quella d’amore, è vietata alle donne afghane: essa presuppone disonore e libero arbitrio.
Subito dopo, Muska morì.
Dopo aver saputo della morte di Muska, Elisa Griswold andò in Afghanistan accompagnata dal fotografo Seamus Murphy dietro incarico del New York Times Magazine al fine di recuperare più notizie possibili sulla breve vita di Muska.
Trovare la sua famiglia sembrava un compito quasi impossibile - una poetessa adolescente che scriveva sotto pseudonimo in una zona di guerra - ma alla fine, con l'aiuto di una organizzazione Pashtun molto efficiente chiamata wadan (Welfare Association for the Development of Afghanistan) Elisa e Seamus riuscirono a trovare il suo villaggio ed i suoi genitori.
Essi scoprirono che il suo vero nome era Zarmina e che la sua storia non era legata soltanto alla poesia. Essa era una storia d'amore finita male.
Promessa fin da bambina a suo cugino, le era stato proibito di sposarlo, poichè, in seguito alla morte del padre, egli non poteva affrontare il volver, il prezzo da pagare per poterla sposare. Il suo amore era maledetto ed il suo futuro incerto.
La morte divenne l'unico controllo che essa potesse esercitare sulla sua vita.

Spero tanto che per tutte queste piccole donne si apra presto una stagione di speranza nel futuro e che non sia più soltanto la morte il controllo che esse possono esercitare sulla loro vita.





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