lunedì 31 marzo 2014

OCNA SPA, da THE DANCE at MOCIU, di Peter Riley, trad. A. Panciroli












C'è una SPA a Ocna Sugatag. Lontano da alcuni costruzioni recentemente abbandonate - poche capanne e pozze etichettate come SPA, etc. sul limitare dei laghi salati, che sono tutto quel che resta delle vecchie miniere di sale al di sotto della città, - essa consiste di un albergo e di un centro sportivo con piscina sulla principale strada diretta a nord. Ocna non è più  che un paese a cavallo di due strade; al massimo una strada parallela ad ogni lato della strada principale che corre da nord a sud. La maggior parte delle abitazioni è chiaramente rurale; forni per il pane nel cortile, qualche animale, etc. Ma la piazza centrale è piuttosto larga con costruzione cittadine relativamente moderne, eleganti per gli standard locali, e una chiesa in pietra al centro. Era una istituzione ungherese per le miniere  e per questo non diventò un villaggio di legno raggruppato come quelli che la circondano, ed è tuttora  il centro amministrativo della mini regione.



Quindi l'albergo e la SPA rimangono sulla strada principale verso nord. L'attrazione utilizzabile per i visitatori che stazionano lì attorno è il bar, che si trova in una dependance dell'hotel al primo piano,  e domina la piscina  dalla sua grande veranda.

Raramente ci si annoia in un bar in Transilvania. Chi è quell'uomo di Viseu che ci fu presentato  come prete due giorni fa , ma che non è vestito come tale, e che sembra parlare d'affari al tavolo con una donna, e perché si muove misteriosamente, uscendo normalmente e rientrando  dalla porta di dietro del bar che appare essere riservata al personale? Non lo sapremo mai, ma ci saluta cordialmente e si scusa per essere così occupato.

E' settembre , soleggiato e caldo ma non c'è molta gente , qualche turista rumeno fuori stagione, quasi tutti anziani, che  di tanto in tanto giocano a golf nel giardino dell'albergo. Anche il bar è silenzioso, eccetto il tavolo accanto a noi, a cui siedono setto od otto paesani. Anch'essi sono anziani, cinque sono donne, chiaramente distinguibili dal vecchio stile "paesano" , con i loro foulard, leggins, vestiti fatti in casa, etc. Bevono grandi bicchieri di birra alla spina e al confronto con ciascun altro sembrano piccoli, pingui e massicci ma soprattutto esuberanti e contenti.  Chiaccherano animatamente uno con l'altro e catturano le nostre occhiate , ridendo fragorosamente.

La loro attenzione si punta su tre persone, le sole che stavano usando la piscina circolare proprio sotto di noi, un uomo  e due donne sui cinquanta o sessanta, in costume da bagno ( si erano tolti gli accappatoi) che poltrivano sotto i pallidi raggi di sole sui bordi della piscina. Tutti e tre erano abbastanza corpulenti. Per gran parte del tempo le due donne stavano sulle sdraio intorno alla piscina;  anche l'uomo se ne stava seduto ma ogni tanto si tuffava in piscina, poi ne usciva e andava alla doccia che si trovava dietro di loro, poi ritornava a sedersi sulla sdraio.

I paesani trovavano questo trio molto divertente. Li guardano, ridono, bevono,tornano a guardarli, ridono, fanno commenti tra di loro, guardano ancora, scuotono la testa, ridacchiano, ridono, Tutti , uomini  e donne allo stesso modo, concordano che questo spettacolo è davvero abbastanza spassoso. Sarà la quasi nudità, i calzoncini da bagno blu dell'uomo quasi invisibili sotto il suo pancione ipernutrito, l'esposizione di tutta questa carne .... potrebbe essere tutta questa attività oppure la sua mancanza; starsene al sole , immergersi in acqua, ambedue attività ridicole e prive di scopo. Non sono sicuro cosa sia.

Ma i paesani stanno morendo dal ridere. Più bevono e parlano, più guardano e più ridono fino a quando non possono più far niente. Questa è veramente la cosa più divertente che abbiano mai visto, questa è la cosa più divertente del mondo.

domenica 23 marzo 2014

PETER RILEY, BREAKFAST at SIBIU, from THE DANCE at MOCIU, trad. A. Pancirolii



Breakfat at Sibiu

La "pensioncina" nella città vecchia, una quantità di tetti rossi precipiti sulla collina, non serviva la colazione. Era solo una stanza vecchiotta al secondo piano sul cui muro stava un arazzo con un grande cervo maschio, una assortita rimanenza di vecchia mobilia, ed uno smilzo balconcino che dava proprio sui tetti rossi. Qui sedevamo alla sera, con un pasto caldo  e pane ed un vino rosso dolce immersi in un silenzio cittadino assai raro nella città da dove venivamo, un paesaggio  cittadino sonoro  fatto solo di voci e di passi. Ogni mattina facevamo una passeggiata sino al centro città, sui marciapiedi selciati, sotto le alte case barocche fino al caffè-bar nella piazza centrale, e ci sedevamo fuori nelle calde mattine di maggio. Molti segni di povertà e miseria.

...facevamo colazione con caffè, omelette e crauti ( che arrivavano non richiesti) serviti al tavolo. I crauti erano un promemoria che questa era stata una città tedesca, come era ancora la sua architettura, e la maggior parte dei segnali stradali e degli avvisi ufficiali erano ancora bilingui, ma tutti i tedeschi erano scappati.

 Due ragazzini si avvicinarono e si fermarono accanto al tavolo, chiedendo silenziosamente qualcosa da mangiare. Ciò era evidentemente accettato come normale dai proprietari e dagli altri clienti. Non era visto come un problema. Solo pochi altri tavoli erano occupati, sopratutto da bevitori che iniziavano la giornata.

Demmo loro qualche panino e dei crauti, che indicammo chiedendo " Li volete?" Sì, li volevano. Se ne presero una cucchiaiata sul pane e se ne andarono.

Un momento dopo  guardai alla mia sinistra  e li vidi, erano forse in otto, seduti al tavolo uno di fronte all'altro mangiando pane e crauti, e sembravano  molto felici,sorridendo radiosamente .Avevano ottenuto la colazione. E non ci degnarono di un 'occhiata. Con noi avevano finito. Avevano chiesto, noi avevamo dato, finito. Nessun sentimento imbronciato o risentito: erano allegramente concentrati su loro stessi. Ora avevano la giornata di fronte a loro. Brillava per loro.

Mi ricordo di un ragazzo zingaro che mi aveva infastidito a Satu Mare quando ero appena arrivato e non avevo moneta rumena, ostinatamente al mio fianco qualsiasi strada prendessi, parlando continuamente, implorando - una recita, una recita necessaria - finchè si accontentò di qualche moneta ungherese, praticamente di nessun valore. E due ore dopo lo incontrammo di nuovo mentre attraversavamo la piazza del paese e ci sorrise allegramente e ci gridò "Ciao!". Nessun residuo, nessun senso di colpa, nessun risentimento - normale vita che se ne va per gli affari suoi. Necessità piuttosto che disperazione.

E mi vennero in mente gli altri mendicanti che avevamo incontrato, a Bucarest e a Tirgu Mures, professionisti, che spingevano tronconi di gamba sul marciapiede, camminavano con le stampelle al livello dei fianchi di altra gente, uno di loro così deforme che pensai  dapprima che fosse teatro di strada, e una ragazza zingara che camminava sulle mani a  Huedin... E chiesi ai nostri amici di Tirgu Mures ," C'è una quantità di mendicanti, pensate che sia indispensabile?"
Sì, è indispensabile.

Ed essere indispensabile è molto difficile, ma non lascia alcun residuo.






lunedì 17 marzo 2014

Ottantamilaquindici...visualizzazioni


Ecco a cosa penso.
Al senso della ragione.
Al senso della dissoluzione.
Al senso del non senso.
                         
Confidenza  G. Caproni




E così, quasi senza parere, abbiamo raggiunto e superato le ottantamila visualizzazioni, senza cedere mai a mode retrive e banali, ma seguendo, quasi sempre, la rotta difficile e  senza scalo della poesia e della traduzione d'autore.  




venerdì 14 marzo 2014

Perchè sono un poeta



Donald Caswell's Why I Am a Poet
I am a poet. I am not a carpenter. Sometimes I think I would rather be a carpenter, but I am not. For instance, Gene, my carpenter friend, is building a house. I drop in. He gives me a hammer and says, "Start pounding." I pound; we pound. I look up. "Where's the roof?" "I'm not that far, yet," he says. I go and the days go by and I drop in again. The roof is up and I go and the days go by and I start a poem. I am thinking of stars and I write a poem about stars. I grab a typewriter and start pounding. Soon there are pages, acres of words about stars and the coffee is gone, so I go to a restaurant. And I buy a beer and the woman next to me tells me how she was raped by her stepfather when she was twelve, so she ran away with an ex-con who got popped again for cocaine and left her pregnant, so she married a GI and moved to Germany, where the baby died of kidney failure, so she came home to live with her mother. And I drink a lot of beers. Then I go outside and lie in a vacant lot looking up at the stars, thinking how many they are and what a wonderful poem they would make. And I fall asleep with a beer in my hand. In the morning, the beer, the stars, and my wallet are gone, so I go to see Gene, and the house is finished. A family is living there, and they show me their dog. There are flowers blooming; cabbage is cooking in the kitchen. So I go home and write another poem. And one day Gene drops in. He looks at the poem and now it is twelve poems, all neatly stacked and ready to be read and he asks, "Where are the stars?" And I say, "I'm not that far yet."

Donald Caswell's Perchè sono un poeta
               
                Sono un poeta. Non sono un falegname. Qualche volta penso sarebbe meglio fossi un   falegname ma non lo sono. Per esempio, Gene, il mio amico falegname, sta costruendo una            casa. Faccio un salto da lui. Che mi dà un martello e mi dice, “Martella.” Io martello; noi       martelliamo. Io guardo in su. “Dov’è il tetto?” “Non ci sono lontano”, dice. Io vado via e i   giorni passano ed io piombo di nuovo da lui. Il tetto è lì ed io vado e i giorni passano ed io comincio una poesia. Sto pensando alle stelle così comincio una poesia sulle stelle. Afferro      una macchina per scrivere e comincio a battere. Presto compaiono pagine, acri di parole   sulle stelle e il caffè è finito così vado al ristorante. E compro una birra e la donna accanto a me mi racconta come fu violentata dal suo patrigno quando aveva dodici anni, così lei andò    via con un ex carcerato che si fece beccare di nuovo con la cocaina e la lasciò incinta, così         lei sposò un GI e andò in Germania, dove il bimbo morì per una insufficienza renale, così lei            tornò a casa a vivere con sua madre.
            Ed io bevo molte birre. E vado fuori e giaccio in un recinto vuoto guardando le stelle,   pensando a quanti milioni sono e a che bel poema scaturirà da loro.
            E mi addormento con la birra in mano. Al mattino, la birra, le stelle e il mio portafogli sono    spariti, così vado a trovare Gene, e la casa è finita. Una famiglia ci vive e mi mostra il suo   cane. Ci sono fiori in boccio; il cavolo sta cuocendo in cucina. Così vado a casa e scrivo    un’altra poesia. E un giorno Gene piomba da me. Egli guarda la poesia ed ora  sono dodici            poesie, tutte graziosamente l’una sull’altra e pronte da leggere ed egli chiede, “ Dove sono   le stelle?” E io dico, “ Non ci sono lontano.”

            Traduzione di Ipazia

            

martedì 4 marzo 2014

U n ponte sul fiume Tisa The Bridge | IDFA 2014

The Bridge | IDFA 2014



Why does the European Union finance the reconstruction of a bridge that nobody is allowed to cross? The old bridge between Sighet, a Romanian town, and Slatina, an Ukrainian town has been destroyed by the German troops during the Second World War. After the war, the northern bank of the Tisza River became part of the Soviet Union while the southern bank continued to be Romanian. The border was closed. A whole web of family, cultural and economic ties was destroyed. The Tisza River separated the two towns almost fifty years. After the collapse of the Soviet Union, Slatina became an Ukrainian town. The borders were opened. People on both banks of the Tisza began to hope again. They wanted to see each other more often, renew old friendships and relationships. The old bridge has been rebuilt in three years. The European Union and the Romanian Government financed the reconstruction. But nobody is allowed to cross it yet. The second round of enlargement of the E.U. will include Romania but exclude the Ukraine. - 




domenica 2 marzo 2014

THE DANCE AT MOCIU, di Peter Riley , THE TOWNS ALONG THE TISA



 Solo qualche giorno fa mi è giunto per posta il libro di Peter Riley, THE DANCE AT MOCIU, ordinato tramite Internet ( che poi è la cosa più bella che ci ha dato il Web: cercarci ed ordinarci i libri in tutte le librerie del mondo, così che magari evitiamo di comprarci quelli di Vespa, Cazzullo, Litizzetto et similia...).
 Un piccolo grande libro sulla Romania rurale della fine degli anni 90, vista dal poeta e saggista inglese Peter Riley che i lettori del blog già ben conoscono per le numerose opere da me tradotte e pubblicate su Ottantanovenuvole.
 Da allora, come lo stesso autore ci avvisa , http://www.aprileye.co.uk/mociu.html, Things change, Le cose cambiano e molte cose sono cambiate in Romania...

Il  libro , in inglese, comunque è molto bello e può essere letto anche da chi non è proprio  fluente nella lingua di Shakespeare. Mi riprometto peraltro di tradurne qualche brano qui sul blog.
 Il primo, Arnota, è già on line : ARNOTA








Nel libro troviamo solo due poesie, o meglio, prose poetiche: qui traduciamo THE TOWNS ALONG THE TISA a pag 111.


Oh! Le città lungo il fiume Tisa, le mura che
cadono a pezzi, le piazze cenciose, i saloni degli Asburgo
e il calcestruzzo comunista erosi nel vento
del fiume...Città di confine bloccate su
confini chiusi, ponti interrotti sul Tisa,
buche sulle strade, carri trainati da buoi
ignorano semafori...Un pastore
con bastone e mantello se ne sta appena fuori
dell'hotel Tisa, gitane in gonne arancioni e
gruppi di cappelli neri a larghe tese  sugli
angoli... Gente che vaga lungo le strade
nella speranza di rimediare un lavoro o appoggiata
a muri in un giorno di mercato tenendo 
davanti allo stomaco il solo oggetto
che ha da vendere, un modellino di una casa o
un sacchetto di tè...Gli ultimi uffici del 
mondo occidentale, riscaldati da stufette 
a legna, scrivanie ricolme di pratiche
irrealizzabili, mentre scende il primo fiocco di neve
e tutto si rabbuia insieme.