Le basse colline incise da terrazzamenti, ormai
trascurati, invasi dalle erbacce. La mancanza di
giovani per lavorare la terra, andati a
a lavorare nei cantieri delle città. Uomini
e donne,magri, contorti, anziani
che coltivano patate in strette strisce
di terra sul fondovalle. Ti salutano, come
sempre, e in due lingue.
Un avvallamento piuttosto che una valle, un lungo
solco poco profondo , dove crescono granturco e patate
nel fondo tra gli alberi da frutta, e pastori
che custodiscono piccoli greggi sui bordi.
E' talmente tutto consumato e quasi tetro
che dobbiamo costantemente ricordare a noi stessi
che questo è veramente Kalotaszeg, un nome che per noi
significa una musica particolarmente ricca e sofisticata,
con la sua immensa dignità e rimorso, la sua
aria come di nobiltà amareggiata.
I giovani se ne sono andati, lasciando
i genitori a lavorare nei campi. Divenuti
lavoratori emigranti, autisti di camion su lunghe
distanze, con la stessa pazienza, la stessa strada
scolpita nella speranza, l'eleganza di un fastigio,
la radiosità di gesti aggraziati tagliati attraverso la necessità
Quando raggiungiamo il paese ( Magyarvalkò)
tutti i fastigi, che danno sulla strada, sono decorati
con strutture semicircolari a raggi sotto le grondaie,
con vasi eleganti e figure dalle forme di uccelli
forati simmetricamente attraverso le assi di legno.
Ornamento cosmico. L' universo
in attesa, dietro l'angolo
sopra la collina, fuori vista. Cartelli di
benvenuto sulla colonne dei cancelli. E una
fattoria collettiva abbandonata con
una fila di grandi macchine agricole in disfacimento
in un capanno, del tutto inadeguate per l'uso
in questo tipo di terreno. E da qualche parte,
l'universo in attesa, le oche appollaiate intorno
al distributore del paese, la donna che
cammina a grandi passi sulla collina due volte
al giorno per caricare l'orologio della chiesa,
la coppia di vecchi che attende il ritorno dei figli.
Come il sole e la neve, che girano
uno appresso l'altro.
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